Deforestazione. Come ci tolgono l’ossigeno.

Categorie -, Ecologia e Sostenibilità

Oggi parliamo della deforestazione a “scopo commerciale”. La definisco così perchè, in fin dei conti si tratta di questo, cioè ottenere spazi e materiali utilizzati poi per la creazione di un utile economico.

Ma andiamo per ordine.

La deforestazione viene praticata in modo più o meno massiccio in tutto il mondo, e consiste nel disboscare e incendiare intere aree ricoperte da vegetazione, che siano esse foreste, boschi o savane.

I motivi per cui si ricorre a questa pratica su larga scala sono molteplici, a cominciare dalla sempre maggiore richiesta di spazi liberi da dedicare poi all’allevamento e all’agricoltura intensivi. Viene praticata anche per far spazio a grandi infrastrutture come strade o ferrovie o a nuove città. Non meno importante è la richiesta di materia prima per la creazione di mobili e strutture in legno più in generale. E senza dimenticare che un terzo della popolazione mondiale utilizza ancora il legname come combustibile per riscaldarsi o per cucinare, e l’unico modo per procurarselo, ahimè, è abbattere alberi.

Possiamo quindi affermare che è un sistema applicato a partire dalle piccole comunità fino ad arrivare ai grandi proprietari terrieri e alle multinazionali, ma nonostante sia un fenomeno storico, che ha sempre interessato il pianeta sin dall’antichità, adesso sta sfuggendo di mano all’umanità. Se una volta infatti eravamo poche centinaia di migliaia di individui che necessitavano di costruirsi una capanna o di procurarsi un pezzettino di terreno per coltivare, ora, con la crescita demografica continua e la sempre maggiore richiesta di spazio, di cibo, di legna, di derivati delle piante in generale, sta creando un problema enorme a livello mondiale in fatto di sostenibilità.

Basti pensare, ad esempio, che le aree verdi del pianeta catturano da sole un terzo dell’anidride carbonica rilasciata dalla combustione di gas, petrolio e carbone, ma il paradosso è che al giorno d’oggi la deforestazione è la terza fonte di emissione di gas serra: infatti quando queste aree vengono distrutte rilasciano enormi quantità di carbonio che raggiunge l’atmosfera.

Le foreste consentono poi di filtrare e trattenere le acque, riducendo i rischi idrogeologici del territorio, frenando l’erosione del suolo. Invece con la progressiva diminuzione di queste assistiamo sempre di più a catastrofi legate a filo diretto a questa pratica, come frane e smottamenti, soprattutto nei territori piovosi e collinari.

Come non considerare inoltre che le foreste racchiudono circa l’80% delle specie animali e vegetali presenti sul Pianeta? Questa fantastica biodiversità rischia però di ridursi irrimediabilmente, e già stiamo assistendo all’estinzione di diverse specie ospitate in questi polmoni verdi.

Ma se la deforestazione è portatrice di tutti questi problemi, che rischiano di impattare drasticamente sul futuro della Terra, perchè si continua a praticarla, chi ci guadagna da tutto questo?

La domanda trova risposta in uno studio condotto dall’International Land Coalition insieme ad Oxfam e ad Inequality Lab: è stato accertato che nonostante l’85% delle aziende agricole a livello mondiale siano di proprietà familiare o cmq gestite da piccoli agricoltori, ben il 70% di terreni fertili è controllato da appena l’1% di queste, che fanno capo a multinazionali e grandi fondi di investimento. Secondo Ward Anseeuw, analista dell’International Land Coalition, “la concentrazione della proprietà e del controllo si traduce in una maggiore spinta verso le monoculture (che stanno sostituendo la varietà di specie vegetali prima garantita dalla frammentazione di quelle stesse proprietà) e un’agricoltura più intensiva, poiché i fondi di investimento tendono a lavorare su cicli di 10 anni per generare rendimenti”.

Pazzesco vero? E’ la storia del capitalismo sfrenato.

Vorrei scendere ora nel dettaglio in alcune situazioni limite che si stanno verificando in giro per il mondo.

AMAZZONIA

In questa zona del mondo la deforestazione c’è sempre stata, ma negli ultimi anni, e precisamente dopo l’elezione di Bolsonaro come presidente, sostenuto in maniera importante dai grandi proprietari terrieri, ha subito un incremento esponenziale.

In questo periodo è aumentata del 30%, e solo nei primi 3 mesi del 2020 addirittura è aumentata del 50% rispetto allo stesso periodo del 2019. Secondo un report del WWF, nel mese di settembre 2020 c’è stato un aumento del 61% degli incendi rispetto allo stesso mese dell’anno precedente: c’erano 32 mila focolai accesi, e il dato è stato ricavato grazie alle immagini satellitari dell’agenzia spaziale INPE (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais).

Secondo uno studio dello Stockholm Resilience Centre, invece, il 40% della foresta pluviale amazzonica si trova ad un punto di non ritorno, ovvero è ormai vicina ad essere classificata come savana più che come foresta, con praterie tipiche di quelle zone.

Proprio riguardo alla savana, va aggiunto che anche la zona del Cerrado, considerata dal WWF la savana più ricca biologicamente nel mondo, e la zona del Pantanal, a sua volta la zona umida più grande della Terra (regioni confinanti con l’Amazzonia) sono interessate da incessanti pratiche di deforestazione tramite incendio: secondo il LASA (Laboratorio de Aplicacoes de Satelites) è ormai stato distrutto il 28% del Pantanal, ovvero 4,2 milioni di ettari di foresta.

Il 73% dei terreni disboscati e dati alle fiamme viene riservato per l’agricoltura e l’allevamento intensivo, e questa percentuale cresce di pari passo con la crescita della richiesta di soia e carne di manzo proveniente dal resto del mondo, ma in particolare dal mercato europeo.

Tutto ciò ha un impatto devastante sul clima a livello mondiale, come si diceva prima, ma anche per la sopravvivenza dei piccoli agricoltori e delle popolazioni indigene che vivono in questi territori: persone che vivono di caccia, pesca e frutti della foresta, conservando da secoli la loro armonia con la natura (cosa da noi ormai perduta). Ma la biodiversità è stata completamente sconvolta, gli animali selvaggi scappano dalle zone vicine a quelle disboscate e si stanno riducendo drasticamente di numero, i pesci vengono avvelenati dalle ingenti quantità di pesticidi che dal terreno filtrano e si riversano nelle acque di fiumi e laghi. Spesso capita che i bambini abbiano diarrea e infezioni intestinali a causa dell’acqua che bevono.

Tra l’altro a livello giuridico le riserve indigene sono riconosciute per Costituzione, ma nonostante ciò negli ultimi anni sono aumentati considerevolmente gli attacchi verso le popolazioni che le abitano, sia in Amazzonia che più a sud, come nello stato Mato Grosso do Sul, dove il territorio è stato quasi totalmente bruciato per fare spazio ai campi di soia: nel 2016 è morto un ragazzo e sono state ferite decine di persone, tra cui anche bambini, durante un assalto di produttori di soia ad un terreno occupato da indigeni. A gennaio 2020 è successo nuovamente.

Sempre in quella zona, dove vive un altro gruppo di indigeni Kaiowa, è stato dato alle fiamme una parte di territorio, anche se riconosciuto ormai da 13 anni come indigeno dalla legge.

Capita inoltre che i grandi agricoltori sorvolino con gli aerei i villaggi dei Kaiowa e dei Guaranì per riversargli sulla testa i loro carichi di pesticidi, in modo tale da cercare di convincerli a lasciare quelle terre.

Per chiudere il cerchio poi, le terre espropriate e le zone disboscate illegalmente vengono legalizzate a posteriori.

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Qui si trova la seconda più grande foresta tropicale del mondo, e due terzi delle foreste rimaste in Africa crescono qui, coprendo una superficie pari ad un terzo della foresta Amazzonica, cioè 1,7 milioni di km quadrati.

Negli ultimi anni l’attività di deforestazione si è intensificata in maniera esponenziale, a causa della crescente domanda di infrastrutture e di necessità di produzione agricola. E’ stato condotto uno studio in prospettiva da parte di PLOS ONE (rivista scientifica di tipo open access pubblicata da Public Library of Science) che dimostra come entro il 2050, se non viene posto un freno a questa pratica in questa zona, la deforestazione potrebbe raggiungere i 5400 km quadrati all’anno, un valore molto vicino a quello che interessa il Brasile attualmente. Questo porterebbe anche ad un aumento delle emissioni pari al 60% rispetto al livello attuale.

INDONESIA

Greenpeace ci dice che tra il 1990 e il 2015 l’Indonesia ha perso circa 24 milioni di ettari di foresta tropicale, più di ogni altro paese del mondo. Sono state distrutte gran parte delle foreste pluviali di Sumatra e Kalimantan da parte dell’industria dell’olio di palma, che successivamente si è riversata su nuove zone, come Papua: tra 2015 e 2017 qua è stata distrutta un’area di 4 mila ettari di foresta. A questo si aggiunge lo sfruttamento dei lavoratori e delle comunità locali.

CINA

La Cina sta portando avanti uno di quei cosiddetti megaprogetti che più preoccupano la comunità scientifica globale: la famosa “Nuova via della seta”, che coinvolge 126 nazioni tra Asia, Africa ed Europa. Il progetto prevede la costruzione e lo sviluppo di nuove infrastrutture come strade, porti, aeroporti, ferrovie e centrali energetiche.

Molte ricerche a riguardo stanno dimostrando come le conseguenze per l’ambiente di tale progetto rischiano di essere devastanti: nei prossimi anni l’avanzamento della realizzazione della Nuova via della seta potrebbe mettere a rischio più di 4 mila specie di animali e oltre 7 mila specie di vegetali.

AMERICA – EUROPA – ITALIA

In America del Nord, i 4 anni di presidenza Trump sono andati nella direzione opposta rispetto a quella della salvaguardia ambientale. Sotto la sua presidenza sono state abrogate numerose norme a tutela di foreste e oceani, senza contare il passo indietro fatto rispetto all’Accordo di Parigi.

L’ultimo colpo di spugna della sua amministrazione è avvenuto a pochi giorni dalle elezioni presidenziali di novembre: la revoca delle protezioni per la foresta nazionale di Tongass, in Alaska, considerato il polmone verde del Nord America, nonché la più grande foresta pluviale temperata intatta del mondo.

Da più di vent’anni infatti era protetta da norme che ne vietavano la raccolta di legname e la costruzione di infrastrutture.

La speranza è che con l’elezione a presidente di Biden si dia una decisa sterzata alla lotta contro lo sfruttamento e la tutela dell’ambiente.

In Europa la situazione è un po diversa: la deforestazione intesa in modo più invasivo ebbe inizio già all’epoca dei Romani, e andò avanti per centinaia di anni, visto il susseguirsi di civiltà storicamente rilevanti. Questo ha portato il nostro continente ad essere quello con meno foreste vergini e con meno habitat incontaminati sul pianeta.

Al giorno d’oggi, però, la tendenza rispetto al resto del mondo è invertita, in quanto le foreste vivono una fase di nuova espansione, fatte salve alcune eccezioni come Polonia e Romania.

Ad esempio in Italia, secondo il Rapporto sullo stato delle foreste presentato dal Ministero delle politiche agricole, dal 1936 ad oggi queste si sono espanse del 72% circa, e ad oggi le zone boschive hanno superato in superficie le aree agricole.

Certo è che non bisogna abbassare la guardia, e sopratutto bisogna incentivare politiche più sostenibili anche nelle altre aree del pianeta interessate da questo fenomeno distruttivo.

Ad esempio, come scrive Greenpeace, l’Europa deve dotarsi di una normativa la quale garantisca che il cibo che arriva sulle nostre tavole e che più in generale i prodotti immessi nel nostro mercato non siano ottenuti a discapito di diritti umani o dovuti al sovrasfruttamento di foreste, savane e natura intesa in senso più ampio.

Bisogna adottare misure efficaci che permettano di rispettare l’Accordo di Parigi sul clima e la Convenzione sulla diversità Biologica (trattato internazionale entrato in vigore nel 1993 e fino ad oggi totalmente disatteso), misure che riguardino anche la deforestazione massiccia a cui stiamo assistendo, poiché questa è una delle principali cause dei cambiamenti climatici e delle numerose estinzioni di specie animali e vegetali avvenute negli ultimi decenni.

Va ricordato anche che nel 2015 sono stati approvati dall’ONU i “Sustainable development goals” (SDG), ovvero gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 per garantire un futuro più sostenibile per tutti. Spaziano dalla povertà alla fame, dal diritto alla salute a quello all’istruzione, dal cambiamento climatico alla tutela ambientale, e altro ancora. Proprio in merito alla tutela e salvaguardia dell’ambiente, l’obiettivo 15.2 del documento recita così: “Entro il 2020, promuovere l’implementazione della gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, arrestare la deforestazione, ripristinare le foreste degradate e aumentare sostanzialmente l’imboschimento e il rimboschimento a livello globale”.

Purtroppo, alla scadenza fissata, tale obiettivo è stato in parte disatteso: nel decennio 2010-2020 la Terra ha perso in media 4,7 milioni di ettari all’anno di boschi e foreste, meno dei 5,2 milioni di ettari del 2000-2010 e dei 7,8 milioni del 1990-2000, il decennio orribile per la salute del pianeta, e si conferma dunque la tendenza ad un miglioramento, ma che interessa solo una parte del pianeta e che procede troppo a rilento.

Fare ricerche e parlare di questi temi ci porta spesso a chiederci, che cosa stiamo facendo, dove stiamo andando?

Poi penso alla nostra vita, ancora da vivere, ma ancora di più a quella dei nostri figli, ai loro diritti, al fatto che vorremmo vederli crescere in salute e che non vogliamo diventino adulti disinteressati/insensibili nei confronti di ciò che è diventato un problema globale e insostenibile. Noi siamo qui per loro, parlarne, informare, diffondere il verbo è fondamentale, anzi grazie mille a te che sei qui, grazie per il tuo tempo prezioso.

Con questa premessa colma di gratitudine e speranza, vogliamo lasciarti con ottimismo elencando brevemente alcuni esempi virtuosi nella lotta alla deforestazione che ci arrivano da paesi lontani e che magari non ti aspetti:

  1. Gabon: il suo territorio è coperto per il 90% da boschi, ed è il primo paese africano che riceve fondi internazionali per la protezione degli alberi. La Norvegia infatti ha messo sul piatto 150 milioni di dollari da spendere in 10 anni per la protezione delle foreste fluviali e la riduzione delle emissioni di gas serra.
  2. Nuova Zelanda: a partire dal 2017 il governo neozelandese ha promosso iniziative volte a piantare piu di 100 milioni di alberi all’anno sul territorio nazionale.
  3. Etiopia: grazie all’iniziativa detta Green Legacy, promossa sui social e rilanciata dal Ministero della Salute e dal Ministero dell’innovazione tecnologica del Paese, ha dato vita ad un programma di riforestazione a ritmi forsennati, che le sono anche valsi il record di alberi piantati in un solo giorno, più di 350 milioni.
  4. India: a partire dal 2017 il Governo ha stanziato 6,2 miliardi di dollari volti al ripopolamento di alberi sul territorio nazionale, per arrivare ad avere una copertura forestale di 95 milioni di ettari entro il 2030.

Come possiamo vedere, molti Paesi si stanno muovendo direttamente o indirettamente per porre un freno ad un disastro ambientale ampiamente annunciato: se gli stessi sforzi fossero messi in campo da parte di tutti gli attori della comunità internazionale ci vorrebbero probabilmente molti meno anni per ripristinare una situazione accettabile.

Quello che possiamo fare noi, inteso come singoli esseri viventi che hanno a cuore il futuro del Pianeta e delle generazioni a venire, è appoggiare le iniziative promosse da associazioni come Greenpeace e WWF, partecipare nel nostro piccolo alla riforestazione in aree sovrasfruttate, cercare il più possibile di tenere uno stile di vita sostenibile: a questo riguardo segnalo un report proprio del WWF dal titolo “Quanta foresta avete mangiato, usato o indossato oggi?” che racconta quanta natura viene sacrificata in molti prodotti di largo consumo, alcuni dei quali tipicamente italiani. (https://wwfit.awsassets.panda.org/downloads/commodities_last.pdf)

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Grazie mille!

Fabrìs @fiveinwonderland

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